Riflessioni adleriane sulle risposte al coronavirus:
Come psicologo e psicoterapeuta adleriano ho una mia visione e compio inferenze per forza influenzate dalla mia formazione sia accademica che extra accademica, quella cioè derivante dalla vita in tutti i suoi compiti vitali.
Faccio quindi interpretazioni della realtà come tutte le persone ma quello che cambia è che conosco, e tento di conoscerlo sempre più approfonditamente, il senso delle mie interpretazioni, delle mie inferenze. Con “il senso” intendo quale obiettivo, quale guida mi conduce a comportarmi in certi modi. Modi che possono sembrare da un punto di vista sia intra che intersoggettivo anche legati a cambiamenti nelle abitudini ma che infondo fanno parte dello stesso continuum legato al nucleo del mio stile di vita. Cioè della mia personalità. La differenza pertanto tra uno psicoterapeuta e tutti gli altri è che lo psicoterapeuta dovrebbe saper comprendere (conoscerne il modo e saperlo applicare a se stesso) le sfaccettature della propria personalità, i limiti e individuarne le finzioni.
Se la realtà è pertanto interpretata esistono leggi fisiche che ci conducono a esperirla in maniera condivisa ed esistono leggi psicologiche che ci permettono di vivere tale realtà come continua e coerente. Esistono allora leggi e assunti che non sono interpretabili in quanto principi cardine dell’esistenza umana. Ad esempio la legge del movimento di Adler afferma che lo stile di vita è in continuo movimento da un posizione di inferiorità a una di superiorità . È poi un assunto che sia impossibile non comunicare (primo assunto di Watzlawick). Se prendiamo in considerazione la legge del movimento di Adler e l’assunto di Watzlawick possiamo compiere una inferenza: che esiste una comunicazione tra stili di vita individuali e tra parti all’interno dello stile di vita. Cioè potremo dire che i nostri passati e le nostre mete di superiorità comunicano tra loro su tutti i livelli.
Occorre allora forse un regolatore che permetta una condivisione della emotività e delle informazioni scambiate, un regolatore sociale che possa essere in parte innato ma che possa esistere nella vita adulta. Tale regolatore Adler lo definisce come sentimento alla cooperazione.Questa forza legata all’educazione e al temperamento innato richiede lo sviluppo di una capacità di adattamento fondamentale nella teoria del movimento, cioè il potenziale creativo. Sentimento alla cooperazione e creatività del pensiero insieme possono direzionare lo stile di vita sia individuale che di gruppo verso mete di superiorità adattive.
La complessità del pensiero adleriano è tale da non permettere un approfondimento “social” in quanto ha lo scopo di spiegare la complessità dello sviluppo della psicologia sociale.
Da tale piccola descrizione della teoria Adleriana mi sposto verso una ulteriore considerazione che è comunque ad essa collegata.
Nel contesto attuale, cioè in una situazione di isolamento forzato, appaiono nuovi modi per comunicare in modo da sentirsi parte di una società che sta vivendo lo stesso “problema” :il coronavirus. Cioè uno stato di inferiorità comporta compensi positivi e negativi che hanno come meta quella di superarlo. Compensi negativi possono essere i tanti comportamenti di negazione del sentimento che pone la malattia. Un sentimento ricordo è una emozione che dura nel tempo e che viene vissuta consapevolmente. La paura di morire è un sentimento che diviene difficile da esperire e la negazione della gravità della situazione aiuta ad allontanarsi dal senso di inferiorità e dalla propria mortalità. Esistono anche compensazioni positive in quanto sono utili alla crescita sociale. Ad esempio i flashmob che stanno avvenendo in Italia attraverso canzoni cantate dai balconi. Anche qui possiamo ritrovare il tentativo di superare il senso di inadeguatezza ma attraverso un comportamento che segue le regole del benessere sociale (stare in casa), con sentimento di partecipazione alla comunità e utilizzando un pensiero creativo (cantare, andare oltre gli schemi preposti ma con meta finale di superamento il benessere collettivo). Infatti se torniamo all’esempio della compensazione negativa come ad esempio uscire di casa e andare in assembramenti la condivisione sociale è un mezzo in tal senso per difendere un senso di sé irrealistico. Viene condiviso un momento di aggregazione che comporta diffusione del virus e rischio per la propria salute. Quindi diviene una compensazione inutile e se è inutile significa che non viene sviluppato il sentimento comunitario e pertanto nemmeno la creatività che permette a gli stili di vita di adattarsi alla situazione. Occorre comprendere che l’adattamento comporta sempre cambiamento e che il cambiamento comporta almeno un minimo di sofferenza.
Solo accettando la sofferenza o il disagio che comporta questa situazione si può andare verso il proprio potenziale sociale e creare un nuovo modo di esperire noi stessi e la società stessa. Accettare non implica rassegnarsi. E non occorre essere eroi nell’accettazione. Occorre però essere capaci di ispirarsi a una meta di superamento realistica.
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"PENSO CHE ESISTA UNA VOLONTÀ' CHE CI PERMETTE DI EMERGERE COME INDIVIDUI E UNA SENSIBILITÀ' CHE VA ALLENATA E SVILUPPATA VERSO I BISOGNI DELLA COLLETTIVITÀ'. ADATTARSI SIGNIFICA COMPRENDERE ED ESPRIMERE L'EQUILIBRIO
TRA QUESTE DUE FORZE VITALI "
Stare male con sé stessi cosa significa?
Innanzitutto occorre chiarire chi siamo per noi stessi. Quale immagine mentale abbiamo del nostro corpo, del nostro carattere, del nostro modo di rapportarci con gli altri. Quindi, chi sono gli “altri” per noi. Che immagine abbiamo del differente da noi?
Per rispondere a quest’ultima domanda è cruciale definire noi stessi. Come possiamo sapere se l’altro è differente (sia fisicamente, sia caratterialmente, sia culturalmente) se non abbiamo una immagine chiara nella nostra mente degli elementi interni ed esterni (tratti fisici e tratti della personalità) che ci caratterizzano?
Partendo dall’assioma che nessuno conosce sé stesso profondamente così come nessuno può conoscere l’altro profondamente (come si potrebbe se l’altro, che siamo poi noi, non è consapevole di elementi importanti della propria formazione caratteriale e socio-culturale?) siamo comunque in grado di fare confronti rispetto al nostro sistema di riferimento originario: la famiglia.
La famiglia è il sistema dinamico di personalità e corpi (ritengo importante specificarlo in quanto all’interno dei gruppi parentali emerge spesso una idea asessuata di genitori e figli) che investono affettivamente, sessualmente, economicamente gli uni su gli altri. Un sistema in continuo divenire che però presenta delle costanti come la tradizione e i preconcetti culturali.
È in continuo divenire in quanto il tempo passa, si invecchia, i traumi avvengono all’interno di qualsiasi famiglia e le difese verso tali traumi possono spostare la linea della autoconsapevolezza rendendoci più difficile accettare i limiti del genitore o del figlio o del fratello o di chi è comunque affettivamente una figura rilevante.
La famiglia fornisce una educazione che investe anche sui concetti; cioè i contenuti della società. Fornisce però anche una forma a tali contenuti. Così può accadere che a volte possano risultare del “veleno contenuto in un cioccolatino”. Tossine per la nostra autostima in formazione sotto forma di apprezzamenti, gratificazioni o definizione del nostro senso di appartenenza culturale attraverso lo sviluppo di finalità individualistiche.
Non è però solo la famiglia che forma l’individuo e che gli fornisce gli strumenti per vivere come “tendente al potere prevaricante” o “come tendente alla socializzazione compassionevole e assertiva” (chiaramente sono i due estremi di un continuum molto esteso). Esiste la scuola, esistono gli amici, i parenti extra nucleari (fuori dal nucleo familiare), esiste il lavoro, lo sport, il compagno o la compagna ecc...
Ecco che allora diventa lampante come quello che siamo sia dovuto dall’integrazione di elementi personologici, psicodinamici e culturali provenienti da sistemi a volte anche in contrapposizione.
Tale integrazione avviene attraverso una scelta, una scelta creativa. È una scelta oltretutto personale e sempre originale anche se poi può avvenire che il risultato di tale scelta sia una personalità che aspira ad assomigliare al Sé di qualcun altro. A volte ci riusciamo talmente bene che diveniamo qualcun altro perdendo il nostro essere originali, unici.
È un atto cognitivo ed emozionale di tipo difensivo che ci permette di negare le nostre debolezze e inadeguatezze giungendo a sostituire l’oggetto intrapsichico inferiorizzante con uno idealizzato. L’Io indebolito da uno stato di aggressione distruttiva costruisce relazioni oggettuali idealizzate creando un falso Sé che si rispecchia nell’oggetto ideale. È come costruire una casa su una palude. Magari tiene sin quando è vuota, aggiungendo mobili o con una variazione del suo assetto rischia di sprofondare. Occorre precisare che le persone che si formano un falso Sé non è detto che sentano il disagio o che stiano male e sicuramente non sono consapevoli del loro vuoto evolutivo.
Sicuramente però vivono un conflitto tra la struttura cristallizzata estremamente fragile in cui sino “cacciati” e la loro aspirazione (pre-conscia) alla individuazione. È un conflitto che avviene fori dalla sfera della consapevolezza e che può manifestarsi con sintomi attribuibili a qualsiasi altro disturbo. Tristezza profonda, ansia, fobie, malinconia, rabbia generalizzata, disturbi somatopsichici ecc...
Dobbiamo però avere sempre presente che il nostro modo di definire e processare i traumi avviene dentro un continuum di scelte all’interno del quale applichiamo difese che possono essere anche le stesse per ognuno di noi ma spesso variano in intensità.
Pertanto se si parla di formazione di un falso Sé o di formazione di un disturbo ego-sintonico come quello di personalità occorre comprendere come non esistono due personalità uguali. Siamo come fiocchi di neve. Non ne esistono due identici. Possiamo assomigliare a qualcun altro e possiamo avere comportamenti simili a quelli di altri anche di culture estremamente differenti dalla nostra ma alla base di quei comportamenti esistono storie differenti, modi di elaborarle differenti e rafforzamenti difensivi che avvengono rispetto difese differenti in stati mentali differenti.
Allora anche soffrire di qualche disturbo psicologico, piuttosto che di una sindrome affettiva, potrà essere paragonato a quello di qualcuno differente da noi ma soprattutto paragonato rispetto le differenze. Invece tendiamo a confrontarci rispetto le somiglianze quando vogliamo informazioni su cosa ci sta accadendo o sta accadendo a chi ci è vicino.
Tendiamo a soffermarci di più sul contenitore che sul contenuto. Sulla categoria che sul funzionamento. Questo probabilmente è un ennesimo tentativo del nostro Sé di difendersi dalla crisi di quei preconcetti, di quelle teorie implicite della personalità, su cui l’Io ha “lavorato” per fornirci una idea stabile di ciò che siamo all’interno della rete sociale. Del “Noi”.
Stare male con se stessi significa allora vivere la crisi tra i nostri oggetti interni e l’Io. La nostra personalità comincia ad offuscarsi lasciandoci quella sensazione di perdita degli schematismi che ci hanno fornito una “idea certa di noi stessi” anche se fallata da inutili idealizzazioni oggetto-Sé.
Avrei potuto anche iniziare dalla domanda: Stare bene con se stessi cosa significa? Ma credo che il lettore potrà ora giungere a una sua originale e personalissima conclusione.
Dott.re Lorenzetto Claudio
Psicologo psicoterapeuta.
Innanzitutto occorre chiarire chi siamo per noi stessi. Quale immagine mentale abbiamo del nostro corpo, del nostro carattere, del nostro modo di rapportarci con gli altri. Quindi, chi sono gli “altri” per noi. Che immagine abbiamo del differente da noi?
Per rispondere a quest’ultima domanda è cruciale definire noi stessi. Come possiamo sapere se l’altro è differente (sia fisicamente, sia caratterialmente, sia culturalmente) se non abbiamo una immagine chiara nella nostra mente degli elementi interni ed esterni (tratti fisici e tratti della personalità) che ci caratterizzano?
Partendo dall’assioma che nessuno conosce sé stesso profondamente così come nessuno può conoscere l’altro profondamente (come si potrebbe se l’altro, che siamo poi noi, non è consapevole di elementi importanti della propria formazione caratteriale e socio-culturale?) siamo comunque in grado di fare confronti rispetto al nostro sistema di riferimento originario: la famiglia.
La famiglia è il sistema dinamico di personalità e corpi (ritengo importante specificarlo in quanto all’interno dei gruppi parentali emerge spesso una idea asessuata di genitori e figli) che investono affettivamente, sessualmente, economicamente gli uni su gli altri. Un sistema in continuo divenire che però presenta delle costanti come la tradizione e i preconcetti culturali.
È in continuo divenire in quanto il tempo passa, si invecchia, i traumi avvengono all’interno di qualsiasi famiglia e le difese verso tali traumi possono spostare la linea della autoconsapevolezza rendendoci più difficile accettare i limiti del genitore o del figlio o del fratello o di chi è comunque affettivamente una figura rilevante.
La famiglia fornisce una educazione che investe anche sui concetti; cioè i contenuti della società. Fornisce però anche una forma a tali contenuti. Così può accadere che a volte possano risultare del “veleno contenuto in un cioccolatino”. Tossine per la nostra autostima in formazione sotto forma di apprezzamenti, gratificazioni o definizione del nostro senso di appartenenza culturale attraverso lo sviluppo di finalità individualistiche.
Non è però solo la famiglia che forma l’individuo e che gli fornisce gli strumenti per vivere come “tendente al potere prevaricante” o “come tendente alla socializzazione compassionevole e assertiva” (chiaramente sono i due estremi di un continuum molto esteso). Esiste la scuola, esistono gli amici, i parenti extra nucleari (fuori dal nucleo familiare), esiste il lavoro, lo sport, il compagno o la compagna ecc...
Ecco che allora diventa lampante come quello che siamo sia dovuto dall’integrazione di elementi personologici, psicodinamici e culturali provenienti da sistemi a volte anche in contrapposizione.
Tale integrazione avviene attraverso una scelta, una scelta creativa. È una scelta oltretutto personale e sempre originale anche se poi può avvenire che il risultato di tale scelta sia una personalità che aspira ad assomigliare al Sé di qualcun altro. A volte ci riusciamo talmente bene che diveniamo qualcun altro perdendo il nostro essere originali, unici.
È un atto cognitivo ed emozionale di tipo difensivo che ci permette di negare le nostre debolezze e inadeguatezze giungendo a sostituire l’oggetto intrapsichico inferiorizzante con uno idealizzato. L’Io indebolito da uno stato di aggressione distruttiva costruisce relazioni oggettuali idealizzate creando un falso Sé che si rispecchia nell’oggetto ideale. È come costruire una casa su una palude. Magari tiene sin quando è vuota, aggiungendo mobili o con una variazione del suo assetto rischia di sprofondare. Occorre precisare che le persone che si formano un falso Sé non è detto che sentano il disagio o che stiano male e sicuramente non sono consapevoli del loro vuoto evolutivo.
Sicuramente però vivono un conflitto tra la struttura cristallizzata estremamente fragile in cui sino “cacciati” e la loro aspirazione (pre-conscia) alla individuazione. È un conflitto che avviene fori dalla sfera della consapevolezza e che può manifestarsi con sintomi attribuibili a qualsiasi altro disturbo. Tristezza profonda, ansia, fobie, malinconia, rabbia generalizzata, disturbi somatopsichici ecc...
Dobbiamo però avere sempre presente che il nostro modo di definire e processare i traumi avviene dentro un continuum di scelte all’interno del quale applichiamo difese che possono essere anche le stesse per ognuno di noi ma spesso variano in intensità.
Pertanto se si parla di formazione di un falso Sé o di formazione di un disturbo ego-sintonico come quello di personalità occorre comprendere come non esistono due personalità uguali. Siamo come fiocchi di neve. Non ne esistono due identici. Possiamo assomigliare a qualcun altro e possiamo avere comportamenti simili a quelli di altri anche di culture estremamente differenti dalla nostra ma alla base di quei comportamenti esistono storie differenti, modi di elaborarle differenti e rafforzamenti difensivi che avvengono rispetto difese differenti in stati mentali differenti.
Allora anche soffrire di qualche disturbo psicologico, piuttosto che di una sindrome affettiva, potrà essere paragonato a quello di qualcuno differente da noi ma soprattutto paragonato rispetto le differenze. Invece tendiamo a confrontarci rispetto le somiglianze quando vogliamo informazioni su cosa ci sta accadendo o sta accadendo a chi ci è vicino.
Tendiamo a soffermarci di più sul contenitore che sul contenuto. Sulla categoria che sul funzionamento. Questo probabilmente è un ennesimo tentativo del nostro Sé di difendersi dalla crisi di quei preconcetti, di quelle teorie implicite della personalità, su cui l’Io ha “lavorato” per fornirci una idea stabile di ciò che siamo all’interno della rete sociale. Del “Noi”.
Stare male con se stessi significa allora vivere la crisi tra i nostri oggetti interni e l’Io. La nostra personalità comincia ad offuscarsi lasciandoci quella sensazione di perdita degli schematismi che ci hanno fornito una “idea certa di noi stessi” anche se fallata da inutili idealizzazioni oggetto-Sé.
Avrei potuto anche iniziare dalla domanda: Stare bene con se stessi cosa significa? Ma credo che il lettore potrà ora giungere a una sua originale e personalissima conclusione.
Dott.re Lorenzetto Claudio
Psicologo psicoterapeuta.